La fotografia: la costruzione del reale attraverso lo sguardo.
Ogni volta che scatto, mi ricordo che la fotografia non è un registro fedele del reale, ma una costruzione dell’occhio e della mente. Non documento, interpreto. Non registro, traduco. Eppure oggi, in un mondo inondato da immagini, sento il bisogno di ribadire questo principio: fotografare non significa copiare, significa scegliere cosa dire e cosa lasciare sospeso.
La macchina fotografica diventa mero strumento di un linguaggio, quello fotografico, la fotografia in senso ampio e non un semplice meccanismo che duplichi la realtà. Finisce per essere un congegno di visione selettiva, di sintesi poetica, di lettura del mondo filtrata dalla mia percezione e dalle mie concezioni visive.
La scelta prima dello scatto
Non credo nel “vedo e fotografo”. Prima ancora dello scatto, c’è un riconoscimento, un sussurro silenzioso che dice: questo merita attenzione. E non perché sia bello in senso convenzionale, ma perché porta con sé una tensione, un ritmo interno che risuona con ciò che cerco. Un meccanismo inconscio che si traduce in quell'aforisma di Adams: "Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato e le persone che hai amato”. La summa degli elementi esogeni che caratterizzano l'individuo rendono unica la sua visione fotografica.
Pur tuttavia nel rapporto con il reale, l’immagine nasce come sottrazione, non accumulo. Scelgo cosa escludere tanto quanto cosa includere. Una scelta tanto inconscia, quanto meglio ancora se fatta coscientemente e in modo arbitrario. Come scrive Luigi Ghirri: «Il fotografo, nell’atto di inquadrare, decide cosa lasciare fuori dallo scatto». Un concetto potentissimo, perché responsabilizza il fotografo nella sua visione del "mondo". Ogni inquadratura è una decisione teorica e poetica, un equilibrio tra forma e contenuto, tra visibile e suggerito. Ogni fotogramma porta la firma di chi guarda, prima ancora di chi preme il pulsante. Come ribadito anche da Szarkowski. E questo è un salto di consapevolezza che non tutti abbracciano, finendo per rimanere nell'aleatorietà ovvero "non so cosa faccio ne perché.
Il ruolo dello sguardo
Due fotografi davanti allo stesso soggetto produrranno mondi diversi. Lo sguardo non è neutro: è già autoriale, già interpretazione. Osservare è un atto di traduzione, di selezione, di risposta emotiva. Lo ribadisco ancora con forza.
Nel mio lavoro, ogni soggetto diventa un prisma attraverso cui filtrare la mia percezione. Non fotografo il mondo “come è”, ma come lo sento: con ciò che mi colpisce, ciò che mi inquieta, ciò che mi affascina. Anche il paesaggio più comune può trasformarsi in un racconto se il mio sguardo lo attraversa con consapevolezza.
La distanza tra occhio e immagine
C’è sempre un margine fertile tra ciò che vedo e ciò che sento. La fotografia è traduzione, non riproduzione. La realtà si frammenta, si piega, si trasfigura nel momento in cui la macchina cattura non solo la luce, ma l’attenzione, la memoria, la tensione interna di chi scatta.
In questo intervallo, tra reale e immaginato, nasce la vera potenza dell’immagine: lo spazio per l’interpretazione, la possibilità di sospendere il giudizio, di far entrare lo spettatore in una conversazione silenziosa con ciò che è stato visto. E questo intervallo a definire l'autore. Il quale non si limita a riprodurre in maniera pedessiqua ma presenta una sua interpretazione.
La mia ricerca personale
Il mio modo di lavorare nasce da questa convinzione: non descrivere il mondo, ma trasfigurarne il senso. Ogni serie, da Criptaliae alle ultime esplorazioni attraverso le singole fotografie, cerca di trasformare paesaggi, oggetti ed altri soggetti in segni di esperienza, di memoria, di messaggio.
Il paesaggio, ad esempio, non è mai solo un luogo: diventa metafora, emozione, respiro. Le linee, le geometrie, le ombre raccontano storie che esistono al di là dell’oggetto fotografato. E in questo senso, riferimenti come Ghirri o Eggleston non sono guide, ma ponti: brevi accenni mi ricordano che la fotografia può trasmettere più del visibile, può suggerire più di quanto mostri.
Il grande fraintendimento: “bello = fotografabile”
C’è un errore comune, quasi inevitabile: pensare che ciò che è esteticamente piacevole sia automaticamente degno di essere fotografato. La fotografia non è conferma, non è decorazione. La fotografia deve dischiudere, aprire mondi invisibili, sospendere l’osservatore, farlo interrogare ciò che crede di vedere. E per certi versi essere finzione. O per meglio dire trasfigurazione della volontà inconscia dello spettatore. Quando realizziamo fotografie commerciali di "polposi hamburgher" di stilose donne in abito da sera, raccontiamo una finzione. Non una bugia, solo una risposta voluta ad una domanda incosciente.
L’estetica è strumento, non scopo. La profondità, invece, nasce dall’intenzionalità, dall’atto critico di scegliere, di sottrarre, di sospendere. La bellezza pura può stordire, la profondità invita a vedere. Per mio vedere l'estetica non è assenza di contenuto. Questa è una concezione morale, che spinge a non dare attenzione ad elementi come forme, linee, colori. Ed è sciocco pensare che l'estetica sia un mero vaneggiamenti come abiti settecenteschi e nobiliari, pomposi è scomodi. No l'estetica è la sua ricerca è un'ulteriore elemento di definizione.
La fotografia come modo di pensare
Fotografare è pensare in immagini. Non custodire souvenir, ma costruire mappe mentali, percorsi di senso. Ogni scatto è riflessione: il soggetto è sempre l’interiorità, non l’oggetto fuori campo. L’atto fotografico diventa interrogazione continua: cosa sento? cosa voglio trasmettere? quale spazio lascio al silenzio?
Lo spazio tra me e il soggetto, tra il soggetto e chi guarda, è un terreno di indagine. È qui che la fotografia smette di essere documento e diventa modo di pensare, strumento di osservazione e di partecipazione al mondo.
Tornando alla tesi iniziale: non riproduco, costruisco. Ogni immagine è scelta, sottrazione, tensione tra ciò che appare e ciò che resta sospeso.
Guardare una fotografia diventa così un atto condiviso: chi osserva entra in dialogo, completa il senso, aggiunge la propria interpretazione. Non esiste un’unica lettura, ma molteplici percorsi possibili.
Ti invito quindi a fare questo passo: osserva con attenzione, lascia che le immagini respirino, senti la tensione tra ciò che si mostra e ciò che non si concede. E scoprirai che ogni fotografia non racconta solo il mondo che vedi, ma anche quello che porti dentro di te. E personalmente ritengo con forza che ogni fotografia sia una mano tesa a dialogare piuttosto che un semplice monologo.